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Il Vicolo della Neve a Salerno: un'immagine dell'imperduto.

Leggendo "Economia dell'Imperduto" di Anne Carson, Utopia editore, in un neologismo si comprende come il linguaggio della memoria abbia un suo alfabeto che una foto può mettere in movimento, una "foto di un ricordo interrotto", parafrasando Faber.


"Il Vicolo della Neve: L'osteria dell'Imperduto, nel Vicolo della durata".

Foto di Anna Giordano, testo di Vincenzo Schiavone.


"Il Vicolo della Neve è un ristorante, nato in un’età immemore, ma, di fatto, è la “durata” nel tempo, chiuso o aperto, è l'Edipo del tempo. Ha accumulato tanta storia che risulta "imperduto", appartiene alla poesia. Nel descriverne il rammarico per la sua chiusura, speriamo temporanea, vorrei attingere alla storia, riprenderne nei particolari il cammino, ma preferisco rimanere nel pressappoco, nel vuoto dei dettagli, nella ricchezza delle ombre. Salgono alla memoria cosciente, vaghezze tattili, gustative, sonore, di inconsapevoli momenti, vissuti come si fosse in un eterno presente.

Vertigini di sensazioni, calori di presenze, suoni di parole e forme di gesti roteanti con braccia e sguardi, soddisfatti, felici, tutto sale alla mente e tutto permane, "imperduto", dalla divisa formale dei camerieri, porpora dal colletto nero, alla loro affabile ed ineffabile gentilezza, dai tavoli e tovaglie, passati sopra le teste dei clienti, per fare posto anche all’impossibile presenza, ingorghi piacevoli nello spazio che rendevano la sala colma, satura di colori e suoni, all’austero forno, sempiterna fucina di pietanze salernitane, calzoni con la scarola e pizze. Ingoiava esso promesse di delizie e restituiva certezze fumanti, quell’ingorda macchina di piacere gustativo, secolare, vezzo dell’umana convivenza epicurea. Pietanze, lasciate sui piani delle dispense, testimoniavano presenze di ricordi delle sagge mani delle donne degli anni '30, '40 e '50 a noi, primi figli dei supermercati, già muse di leggendarie memorie culinarie. Selezionati arredi alle pareti, nati da consigli, pervenuti da astanti, venuti, nel tempo, da luoghi vicini e lontani, dai teatri poco distanti, dalle redazioni delle notturne fatiche dei giornali piombacei, dagli studi polverosi notarili e forensi, dai mercati appena riposti o appena aperti, dal pescatore ripagato con un tavolo e una bottiglia, ingollata su un polpo affogato, da mare e limone, vigilavano su di me che, per sfuggire loro, arrivai a scrivere il nome di mia figlia, appena nata, sulle mattonelle della sala interna, nascosto come un carbonaro.

Ed era già tempo recente. Da sempre, il vezzo provato da noi rampolli di vecchi salernitani, di essere, giovani, chiamati già con i titoli dei propri padri ci riempiva di orgoglio. Erano antiche cortesie che ci rassicuravano, a noi così incerti e vaghi, nel sentirci incoerenti figli. Mangiavamo di tutto e dato il costo, né ampio né ostile, ma neppure parco assai, andando di rado si mangiava, tutti, come ossessi. Dalla ciambotta, lentamente assorbita d’olio, alle polpette, al polpo, immenso e ancora, seppur nel piatto, temuto; dalla scarola nel calzone, cotta o cruda, dibattito eterno, al peperone ripieno all’inverosimile; dalla pasta e fagioli dal cucchiaio eretto alla discussione di pura Accademia sulla giusta cotica perfetta. Eravamo felici, in quella sala ristretta tra colonne e tavoli, nel sentirci osservati, felici di non essere da quello sguardo mai perdonati e mai redenti, vale a dire, da quegli occhi di "tafuriani inferni" e, poi, scivolavamo all'esterno, convinti di aver rinviato ancora di qualche tempo l'ultima giovinezza. E, alle volte, quando arrivavamo tardissimo, solitari clienti affamati, venivamo accolti dall'oste che ci forniva di tutto quel che era rimasto e, felici cenobiti solitari, tra ombre novecentesche di poeti e artisti o notabili, sciolti nell'anima dalle musiche del Verdi, noi, eterni epigoni o oggi immaturi ad ogni futuro, consapevoli d'essere generazione del cambio, scivolavamo, tra la notte e il mattino, all'Alcol Bar, poco più in là, tra gli echi dei nostri passi, tra vicoli stretti e deserti, ma pieni di storia, a commentare sulle ombre che “duravano”, consapevoli di essere una generazione in dissolvenza e, per sempre, acusmatici perenni dell'imperduto. Noi stessi ci incontravamo sorpresi di essere sospesi tra altri giovani adulti, in equilibrio tra il Novecento e il Duemila, eredi appesantiti, assorbiti da un’incipiente liberazione, saccenti contro i padri, presuntuosi verso i figli. Però, in questa generazione della dissolvenza, forse, si è coltivata l’ultima cura dell’Io, per poter essere capaci ancora di comprendere che della poesia non si è mai sazi".



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